Si calcola che nel 2050 ci sarà un aumento di circa sei volte i casi di demenza registrati nel 2019, raggiungendo i 150 milioni (1). E’ quindi necessario mettere in atto in questo momento strategie di prevenzione per ridurre l’impatto che demenza e malattia di Alzheimer avranno nei prossimi anni. Ancora una volta, la vitamina D ha assunto una posizione di rilievo. Uno studio ancillare del vitamin D trial (VITAL) ha infatti già valutato l’effetto che la supplementazione quotidiana con 2000 UI di colecalciferolo ha sul declino cognitivo, senza tuttavia ottenere risultati significativi e lasciando gli esperti con dubbi ancora insoluti (2). Lo studio di Kyla Shea e colleghi nasce per colmare queste lacune ed in particolare per rispondere a due domande: i livelli di vitamina D cerebrali sono associati alle funzioni cognitive? I livelli di vitamina D cerebrali riflettono quelli circolanti?
Per fare ciò sono stati utilizzati i dati relativi ai partecipanti del Rush Memory and Aging Project (MAP). Il MAP è uno studio longitudinale ancora in corso, che ha come fine quello di definire i fattori di rischio per malattia di Alzheimer e per il declino cognitivo in generale (3). Al momento dell’arruolamento, i pazienti non presentavano segni di demenza ed hanno rilasciato il proprio consenso per la raccolta di dati anamnestici, rivalutazioni cliniche annuali e per la donazione degli organi alla scienza dopo la morte. Durante i controlli annuali sono stati determinati i livelli sierici di 25-idrossi-colecalciferolo (25OHD3) totale, di 25OHD3 libero e della proteina legante la vitamina D (VBP). Inoltre sono stati svolti annualmente test cognitivi per valutare la memoria episodica, la memoria semantica, la memoria operativa, la velocità percettiva e l’orientamento percettivo. Dopo la morte, campioni cerebrali sono stati prelevati sia per una diagnosi istologica sia per dosare i livelli tissutali di 25OHD3, 1,25-di-idrossi-colecalciferolo [1,25(OH)2D3] e di colecalciferolo in quattro regioni cerebrali (corteccia medio-temporale, corteccia medio-frontale, cervelletto e sostanza bianca peri-ventricolare anteriore).
Al momento della morte i pazienti erano prevalentemente femmine, caucasici, avevano in media 92 anni ed avevano svolto almeno 12 anni di scolarità. All’ultimo controllo clinico il 40% aveva ricevuto diagnosi di demenza.
Dopo la morte, le concentrazioni plasmatiche di 25OHD3 sia libero che totale erano correlate al 25OHD3 tissutale misurato nelle quattro regioni cerebrali. Il 25OHD3 in forma totale era a sua volta correlato con quello libero, ma non con la VBP.
Livelli tissutali globali di 25OHD3 più elevati erano associati con un ridotto rischio di demenza o declino cognitivo lieve, mentre elevati livelli tissutali di 25(OH)D3 nella sostanza bianca peri-ventricolare anteriore erano associati ad un più lento declino cognitivo. In particolare, livelli più alti di 25OHD3 tissutali in tutte le regioni erano associati ad una migliore memoria semantica ed operativa, mentre concentrazioni di 25(OH)D3 maggiori nella sostanza bianca peri-ventricolare anteriore erano associate con una migliore memoria episodica e velocità percettiva. Al contrario i livelli plasmatici di VBP e 25(OH)D3 non erano associati con la funzione cognitiva globale o con il declino cognitivo. Livelli plasmatici di 25(OH)D3 più alti erano invece significativamente associati con un minor numero di micro-infarti cerebrali. D’altro canto, le concentrazioni tissutali di 25(OH)D3 non erano associate con reperti neuropatologici all’esame istologico post-mortem.
Lo studio presenta punti di forza e limitazioni. Se da un lato è uno studio prospettico, nonché il primo ad aver utilizzato dati di pazienti raccolti sia prima che dopo la morte, dall’altro manca della generalizzabilità etnica dei risultati, in quanto la maggior parte dei decessi si sono registrati tra i caucasici.
In conclusione, i risultati supportano la tesi di un effetto positivo di un adeguato status vitaminico D sul declino cognitivo e lasciano spazio alla ricerca futura per identificare il ruolo che essa stessa può svolgere nelle diverse zone cerebrali, per lo studio di diverse etnie e per la ricerca in vivo sfruttando tecniche di neuro-imaging.
Commento all’articolo di Shea MK, Barger K, Dawson-Hughes B, et al. Brain vitamin D forms, cognitive decline, and neuropathology in community-dwelling older adults [published online ahead of print, 2022 Dec 7]. Alzheimers Dement. 2022;10.1002/alz.12836. doi:10.1002/alz.12836
Bibliografia
- Global Burden of Disease Collaborators. Estimation of the global prevalence of dementia in 2019 and forecasted prevalence in 2050: an analysis for the Global Burden of Disease Study 2019. Lancet Public Health. 2022;7(2):e105-e125
- Kang JH, Vyas CM, Okereke OI, et al. Effect of vitamin D on cognitive decline: results from two ancillary studies of the VITAL randomized trial. Sci Rep. 2021;11(1):23253
- Bennett DA, Schneider JA, Buchman AS, Barnes LL, Boyle PA, Wilson RS. Overview and findings from the rush memory and aging project. Curr Alzheimer Res. 2012;9(6):646-663